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Pietropolli Charmet e la gioventù rubata

Di Laura Porta

Gli adolescenti sono il barometro della società, scriveva Winnicott. Ciò che colpisce nel messaggio di chi l’adolescenza la studia da ormai mezzo secolo è che il comportamento apparentemente indecifrabile dei giovani è qualcosa che ci rispecchia e ci riguarda.

Il quadro generale che emerge da questo prezioso testo divulgativo di Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta fra i più importanti in Italia, è straziante nel descrivere una sofferenza muta, incompresa e apparentemente incomprensibile, in un certo senso causata dal tipo di società che abbiamo creato, li abbiamo delusi: “non era vero niente di quello che ci lasciavano intendere gli adulti” (p. 144).

Non era vero niente, perché il tipo di società che abbiamo oggi da offrirgli, dove il narcisismo è imperante e i valori dominanti sono il successo e la fama, è troppo fragile e non promette alcun futuro. La chiusura totale che gli adolescenti hanno subito durante la pandemia li ha dolorosamente confrontati con la perdita e con la sensazione che ci siamo dimenticati di loro.

Non era vero che la morte non li riguarda, perché ci riguarda tutti, casomai può essere una grande maestra per insegnarci che il tempo che abbiamo a disposizione non è infinito, per spronarci a coltivare le nostre passioni e i nostri talenti con impegno costante e deciso, senza cedere alle lusinghe degli “spacciatori di illusioni” (p. 159).

L’autore di questo libro gode dell’autorevolezza acquisita in anni di lavoro sul campo, grazie a studi sistematici portati avanti dalle équipes dei centri da lui fondati che si occupano di cura e di prevenzione della sofferenza giovanile. La sua parola è fondata sulle sue personali riflessioni ma anche su dati, statistiche, osservatori in varie città italiane, dove un numeroso gruppo di professionisti suoi collaboratori gestisce sportelli scolastici e luoghi specializzati, ascoltando quotidianamente molte storie di giovani sofferenti, delle loro famiglie e degli insegnanti.

Nella contemporanea famiglia mononucleare, dove spesso ci sono figli unici, i genitori sono i primi fan dei loro ragazzi, in un modello ormai non più patriarcale ma dove, come scrive Massimo Recalcati, gli equilibri possono capovolgersi in modo preoccupante quando sono i genitori a rincorrere i figli per essere rassicurati dal loro amore e non più il contrario.

In questo scenario paradossale nessuno riesce più ad essere portatore autorevole di un messaggio educativo fondamentale, secondo cui è necessario identificare i propri reali talenti e desideri, entrare nell’ottica di intraprendere un duro lavoro per coltivarli e per darsi una possibilità di espressione unica e singolare, anche in controtendenza rispetto alla voracità consumistica del grande animale capitalista.

Non si tratta certo di nostalgia del patriarcato, ci sono voluti anni per superarlo e ha fatto abbastanza danni per pensare di ripristinarlo come modello educativo, ma di un’invocazione affinché gli adulti di oggi inizino a responsabilizzarsi per incarnare una possibilità di autorealizzazione solidale e a testimoniarla come nuova possibile via di trasmissione del desiderio.

Al di là di questi buoni auspici troviamo una situazione preoccupante, è vero che i tra professionisti della cura albergano spesso visioni pessimistiche del termometro sociale, avendo un osservatorio privilegiato della fascia più fragile e cosiddetta patologica, ma è altrettanto vero che il fenomeno della sofferenza giovanile post-pandemica è così dilagante e trasversale da aver lasciato strascichi un po’ ovunque, esaminabili ad ampio raggio.

Le conseguenze della reclusione forzata a cui gli adolescenti hanno dovuto sottoporsi sono rabbia e dolore, declinati sotto forma di molteplici e inquietanti sintomi. Nessuna voce autorevole ha parlato direttamente a loro, secondo Charmet, considerando il loro estremo sacrificio e promettendo per esempio un risarcimento, non monetario come è stato per le imprese, ma simbolico, sotto forma di progetti a loro dedicati.

Lo spettro delle manifestazioni della sofferenza giovanile post-Covid è ampio, non riguarda certo il rischio pandemico ma l’essere rimasti completamente fuori dalla scena sociale e culturale. A partire da come è stata organizzata la DAD, improvvisata in fretta e furia senza preoccuparsi tanto di “raggiungerli”, ma quasi esclusivamente impegnata a ripristinare da remoto lo stile della lezione in cattedra.

Non si tratta di attribuire colpe, ma di maturare riflessioni che possano esserci d’aiuto nel caso in cui dovessero verificarsi nuovamente circostanze analoghe di lockdown.

I giovani sono abilissimi frequentatori delle relazioni virtuali, probabilmente proprio a causa del fatto che subiscono fortissima la pressione della propria presentabilità sociale estetica e prestazionale. Il loro corpo è in via di trasformazione, spesso percepito come impresentabile in quanto estraneo e mai all’altezza dei modelli imposti dai social media, il loro sentimento dominante è la vergogna, il non essere all’altezza, un sentimento che a differenza della colpa fa rischiare l’implosione e l’autodistruzione anziché incentivare un’elaborazione dialettica: “se non sono all’altezza non ho alcuno scampo”.

La vergogna invita piuttosto a nascondersi dagli sguardi impietosi di scherno dei coetanei che non risparmiano i più feroci attacchi, sferrati principalmente grazie al reciproco sostegno del gruppo, che può funzionare secondo dinamiche tribali spietate. Quale miglior alleato di internet e delle conoscenze virtuali per nascondere e lasciare fuori campo il proprio scomodissimo corpo?

Il tipo di amicizie virtuali che i giovani riescono a coltivare oggi sono tutt’altra cosa rispetto ai pen friends di cui le generazioni precedenti hanno memoria. Si tratta di amicizie votate all’ampio uso della confessione e della condivisione, con un’intensità e una dedizione reciproca che spesso comportano un disinvestimento dalla ricerca di amicizie nella realtà sociale, con componenti simbiotiche che fanno sì che si tenda ad essere iperconnessi e sempre in contatto.

Si tratta di un fenomeno che spesso preoccupa i genitori, in alcuni casi diviene tempo transizionale di passaggio verso le relazioni reali, in attesa di instaurare un’amicizia con il proprio corpo e con il sentirsi presentabili socialmente. Del resto, molti incontri che poi si solidificano in matrimoni e relazioni durature nascono proprio a partire da conoscenze avvenute virtualmente, ciò prova che da remoto è possibile instaurare un livello di comunicazione profonda a livello mentale e di condivisione di pensieri e di confidenze intime che non sempre è ottenibile nelle relazioni reali.

Sembra che gli insegnanti nella DAD non abbiano saputo tener conto delle numerose possibilità che la lezione virtuale poteva offrire loro per incentivare le potenzialità espressive degli alunni. Sembra che la DAD abbia slatentizzato la percezione di una scuola sempre più distante, che riesce a pensare ai ragazzi solo come a contenitori di informazioni da apprendere e non agli insegnanti come ostetrici nel delicato lavoro di accompagnare gli allievi nella loro nuova nascita espressiva.

Il modello della DAD, molto efficace nella formazione a distanza di universitari e professionisti, è risultato povero e traballante con gli studenti la cui necessità prioritaria è la relazione, tra pari e con gli insegnanti. Forse i giovani avrebbero potuto insegnarci qualcosa per connetterci profondamente anche a livello relazionale, essendo navigati frequentatori delle relazioni online, peccato che nessuna autorità abbia mai pensato di interpellarli.

Il venir meno, in questo senso, della scuola, “ha provocato un trauma di cui i ragazzi, soprattutto i più fragili, pagano il conto ancora oggi a distanza di mesi” (p. 141), si potrebbe dire il trauma di una brusca e improvvisa percezione dell’inesistenza di un Altro che garantisce e che protegge, a fronte delle premesse e delle promesse di una gioventù apparentemente iper-garantita e iper-protetta.

Da qui possiamo dedurre che la scuola abbia un’importantissima funzione regolatrice che sostiene la loro crescita, è dunque nella scuola che è necessario, secondo il noto psicoterapeuta, attuare tutti i possibili sistemi di prevenzione, dilatandone gli spazi e le esperienze.

Con le parole di Charmet: “L’idolatria della scuola per lo studio della storia della cultura, dell’arte e delle scienze potrebbe lasciare qualche spazio anche allo studio del futuro, per poter immaginare insieme a ogni studente un percorso personale indirizzato alla scelta di un’identità sociale e di una attività lavorativa che corrispondano il più possibile alle labili tracce della propria vocazione originaria”, (p. 142).

E ancora: “Gli adulti li avevano illusi sul loro personale diritto a una via preferenziale per il successo, arrivando primi nel raggiungimento della meta di una visibilità sociale che avrebbe garantito loro di fruire di particolari privilegi. Il sogno a occhi aperti di una frangia di ragazzi fragili era fondato sulla fantasia di diventare ricchi e forse famosi non grazie allo sviluppo di grandi competenze in un’arte o in un mestiere, ma per le intrinseche qualità della loro persona, che sarebbero state premiate indipendentemente dai risultati del loro operare” (p. 143).

La pandemia ha dunque infranto questo fragile sogno collettivo, alimentato dalla macchina della cultura capitalista contemporanea, mostrandoci un futuro plumbeo e incerto e infrangendo le illusioni del nostro tempo.

Tra le manifestazioni sintomatiche che sono proliferate dopo la pandemia nei giovani, orientate dalla rabbia e dal dolore, troviamo gli attacchi al corpo individuali e mimetici, incentivati da comunità virtuali di giovani che promettono un’anestesia momentanea della sofferenza grazie a ferite ripetute e continue che è necessario autoinfliggersi sul corpo, provocandosi vistosi ematomi o tagli.

Sulla stessa scia troviamo i disturbi alimentari soprattutto nelle giovani, che sempre via etere ricevono consigli per sottoporre il proprio corpo a digiuni strazianti. E così via l’elenco è impressionante, è in aumento il numero dei cosiddetti eremiti, ragazzi che hanno deciso di non uscire più dalla loro cameretta anche dopo la riapertura.

Per non parlare dell’aumento preoccupante dei fenomeni di ansia e di attacchi di panico che assumono sempre la coloritura emotiva di un bilico tra la vita e la morte, con ricorsi continui al pronto soccorso nella percezione della morte improvvisa, dove l’unico possibile calmante diventa il sedativo.

Se il rapporto con lo specchio era già per definizione complicato in questa fascia di età, ora che lo specchio siamo diventati noi e che abbiamo rimandato loro quanto fossero insignificanti di fronte alla crisi pandemica, il panico sta dilagando, insieme alla rabbia.

Un altro fenomeno tanto vistoso quanto preoccupante è stato il proliferare di piccole bande di minori, piccoli scippatori e delinquenti, intenti a regolamenti di conti fra gruppi avversi; un fenomeno la cui portata di allarme non è tanto sul piano criminologico ma sul piano sociale e psicologico, come se la rabbia non fosse più contenibile e divenisse sempre più agita attraverso la violenza.

Come per ogni trauma, possiamo fermarci a constatare il suo aspetto devastante oppure coglierne l’insegnamento e la sua possibilità di rilanciare la vita, che non sarà più come prima ma potrà forse uscirne rafforzata.

Questo libro di piacevole e appassionante lettura ci dà anche qualche indicazione per non ripetere gli errori commessi: è necessario che gli adulti “garantiscano ai ragazzi che hanno la stoffa per diventare bravi; ci vuole però molto allenamento e la capacità di sperare anche quando il cielo si oscura e non si scorge più la luce che di solito proviene dal futuro a indicare il percorso da fare per diventare grandi” (p. 143). Ma offre anche indicazioni precise e interessanti su interventi tecnici che possono essere fatti a livello sia individuale che collettivo nella cura del complesso sistema sociale che ruota intorno agli adolescenti.

Il quadro che ci dipinge Charmet tralascia in modo certamente intenzionale degli approfondimenti sul mistero della sofferenza adolescenziale (e specificatamente umana), che va aldilà di ogni possibile spiegazione sociologica e ambientale. È evidente che in questa sede Charmet ha privilegiato una lettura collettiva di un fenomeno sociale, senza voler entrare nei casi specifici.

La psicoanalisi fornisce uno strumento di lettura per individuare una terza dimensione tra Io e Altro, tra individuale e collettivo, che in ambito lacaniano viene chiamata “fantasma”, in ambito junghiano “mito”. Si tratta di una personalissima rappresentazione della realtà mediata dall’inconscio, che costituisce contemporaneamente il nodo oscuro della sofferenza soggettiva e l’originale cifra creativa di ciascuno. Individuare il mistero di questa singolarissima percezione del mondo è una sfida sempre aperta e sempre nuova, declinabile solo nella dimensione dell’uno per uno.

Tuttavia, questo testo ci ricorda, come scrive Romano Màdera, che l’individuale è il sociale, nel senso che siamo sempre chiamati eticamente a interrogare socialmente ogni fenomeno individuale, per non cadere nella tentazione e nel tranello del nostro tempo di pensarci soli e sganciati dagli altri.